The Place: questo è cinema italiano!
- Anakin
- 9 apr 2018
- Tempo di lettura: 6 min
Oggi si parla di stupore e incredulità? Perché? Beh, sono i due stati d’animo che mi hanno assalito una volta uscito dal cinema quando vidi per la prima volta The Place.

Film del 2017, per la regia di Paolo Genovese, autore di Perfetti Sconosciuti, The Place è un film che mi ha letteralmente devastato. Parto con il dire che io sono il tipo di persona che preferisce andare a vedere i film al cinema senza aver visto trailer. Da fan di Star Wars, il trailer de Gli Ultimi Jedi, in uscita tra pochi giorni(arriverà chiaramente la recensione sempre qui su Orion), non l’ho visto. Questo perché vedere un film “a scatola chiusa” lascia molte incognite. E dove incombe l’incognita, l’immaginazione ha il sopravvento.
Immaginazione. Questa è una parola chiave. Nei film di fantascienza in cui appaiono misteriose entità, mostri malefici celati nell’oscurità, l’attenzione dello spettatore è ai massimi livelli nel momento in cui si palesa qualcosa che però non è totalmente rivelato. Come sarà fatto quel mostro? Cosa sarà quell’entità? Il bello di tali opere è la capacità di far porre allo spettatore delle domande. Perché chi guarda un film non vuole necessariamente sempre la pappa già pronta, rivelare le fattezze di quel qualcosa che aleggia nelle tenebre non lo interessa davvero. Sì, perché quando quel qualcosa viene mostrato…la magia si perde.
Paolo Genovese, tramite una regia più simile ad un’opera teatrale che ad una cinematografica, riesce a costruire un intreccio misterioso e quantomai inspiegabile nel quale le domande sono il vero personaggio principale. Domande che, è bene precisarlo, iniziano sin dal primo istante del film.
Diverse persone incontrano in un locale, The Place per l’appunto, un uomo misterioso. Sebbene inizialmente tutti questi personaggi sembrino non avere nulla a che fare l’un con l’altro, una cosa è certa: tutti hanno un obiettivo, un desiderio per il quale sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa. Tutti si sono rivolti a quell’uomo, l’unico in grado di mostrare loro la strada per arrivare a quella tanto agognata meta. Ma la vera domanda è: cosa realmente si è disposti a fare per ottenere ogni nostro più intimo desiderio? Cosa darebbe un cieco per ottenere la vista? Cosa un padre per salvare la vita del figlio malato? Cosa una ragazza un po’ stralunata per raggiungere la bellezza? Cosa il rude meccanico per trascorrere una notte con una modella da copertina? Effettivamente nemmeno loro lo sanno. Ma proprio per questo si affidano al misterioso personaggio, sul quale la mente dello spettatore si sarà già costruito mille mila idee dopo pochi minuti, il quale gli propone un semplice “accordo”. Sempre seduto sulla stessa sedia dello stesso locale, consulta una folta agenda, dopodiché pronuncia l’ardua sentenza. E per ognuno dei desideri espressi il prezzo da pagare è alto, le azioni da compiere sono atti profondamente contrari ad ogni principio etico. Dal compiere una violenza sessuale fino a piazzare una bomba in un locale, tutti si dovranno scontrare con il fatto che dentro ogni uomo c’è un genio maligno capace di compiere il più efferato crimine pur di raggiungere l’oggetto del proprio volere. Le persone a colloquio con questa semi divinità, sulla quale le macchinazioni e le elucubrazioni possono susseguirsi all’infinito, non sono obbligate a compiere le angherie proposte dal loro interlocutore. Ma sanno che facendolo il proprio destino potrebbe cambiare.
Ma chi è quell’uomo, perché spinge la gente a fare atti così orrendi, come sa che in quel modo le cose andranno come da copione? È forse un mostro? No, lui dà da mangiare ai mostri. Lui fornisce speranza. E, in certi casi, la soluzione.
Soluzione. Altra parola chiave. Fondamentale, in un film come questo. Perché se come abbiamo detto per le opere fantascientifiche, il rivelare il mistero dell’entità piuttosto che del mostro di turno fa sparire la magia, in The Place la magia rimarrà viva fino all’ultimo. Anche perché il personaggio interpretato da un sontuoso Mastandrea non è un mostro. Diciamo che dà da mangiare ai mostri.
Quando mi si chiede quale sia il mio genere cinematografico preferito, difficilmente rispondo con facilità. In effetti non ritengo di avere un vero e proprio genere preferito, quando un film è bello è bello ripeto sempre. Nel caso di The Place mi trovo però nella difficile situazione di inquadrarlo in un genere ben preciso. C’è chi lo definisce film metafisico, e direi che sia probabilmente questa la definizione più calzante. Il punto focale in tutto questo è la realizzazione di questo particolarissimo film metafisico. Più affine al mondo teatrale che a quello cinematografico, come accennato, la nuova perla di Genovese non si avvicina a tale mondo solo dal punto di vista della location ma anche e soprattutto per le meccaniche che lo contraddistinguono.
C’è molto Harold Pinter e The Room in questa messinscena filmica. Pinter, drammaturgo inglese, esponente del teatro dell’assurdo novecentesco, genere teatrale di cui The Room, per l’appunto, è uno dei baluardi. Una delle tante caratteristiche di tale opera stava nel fatto che i personaggi di tale dramma, pur compiendo le peggiori angherie, non mostrano mai i propri crimini. Tutto viene raccontato, spiegato, e l’assurdo si raggiunge proprio grazie al fatto che questi misfatti vengono descritti con una tale nonchalance da rendere la situazione…assurda, per l’appunto.
Ogni volta che qualcuno si siede al famigerato tavolino aggiorna il nostro Mastandrea circa le missioni a loro affidate. L’anziana signora decisa a salvare il marito dall’alzheimer gli spiega che la fabbricazione di una fantomatica bomba sia a buon punto. Il padre pronto a tutto pur di salvare il figlio malato gli spiega come sia riuscito a identificare la sua prossima vittima. Ognuno di loro sta per commettere o ha già commesso qualcosa di mostruoso. Ma questo non ci viene mostrato, il come e i dettagli di tali azioni sono pane per l’immaginazione dello spettatore.
Il ritmo incessante e il veloce passaggio da una storia all’altra, da un dramma all’altro, fanno sì che ciascuno di questi sia presentato come un rapido flash. Ogni volta che un personaggio si siede a quel tavolino e inizia a raccontare la propria esperienza, si rimane esterrefatti e colpiti allo stesso tempo. Colpiti dal fatto che, a colloquio con l’uomo misterioso, manifestano in una tenebrosa epifania quel demone oscuro che dimora in loro. Tutti sono pronti a scusarsi e ad auto convincersi del fatto che ciò che stanno facendo sia giusto per una ragione o per l’altra, in un machiavellico fine che giustifica i mezzi che li porterà in alcuni casi a compiere gli atti più riprovevoli.
Se l’accostamento al teatro dell’assurdo mette in risalto la capacità da parte della sceneggiatura di dare spazio all’immaginazione dello spettatore, senza mai andare a sfamare quel languore di risposte, il tutto potrebbe però far pensare ad un ritmo spezzato e ad una tragicità castrata nelle azioni dei protagonisti dei vari drammi. Ma non è affatto così. Anzi. Il fatto di non vedere l’azione(e torniamo al concetto legato alla fantascienza anni ’70-‘80), aumenta il carico emotivo e il trasporto da parte di chi può solamente avere una visione parziale e soggettiva di quello che realmente non è messo in scena.
A fomentare questo ritmo perfettamente incalzante vi è una magistrale abilità nel mescolare e far combaciare diverse storie che tra loro inizialmente paiono lontane e distinte. Il tutto acquista maggior valore, poi, nel momento in cui, capito lo stratagemma, lo spettatore inizia a fantasticare sui vari collegamenti e incastri che potrebbero, ma anche no, andare ad unire i vari personaggi. E non sempre le ipotesi formulate saranno risolutive.
In ultimo mi trovo necessitato a fare una precisazione. In questa parte conclusiva tratterò alcuni aspetti semi spoilerosi. Non farò veri e propri spoiler ma per chi volesse vedere il film privo di qualsivoglia genere di anticipazione relativa al film, tattica che incentivo caldamente per opere quali The Place, sconsiglio di procedere oltre queste righe. Dunque da qui in poi parte lo SPOILER ALLERT.
Sul finale del film ho avuto paura. Tanta paura. Perché mentre il personaggio interpretato da una brava Sabrina Ferilli riesce a fare lievemente breccia nel muro formato dal misterioso uomo, ho temuto che la svolta che effettivamente stava prendendo la storia avrebbe significato lo svelamento di ciò che fosse e chi fosse veramente quella che probabilmente sarebbe più corretto indicare come un’entità. E a quel punto la bravura della regia sta nel fatto che, oltre a non cadere in quello che sarebbe stato un grave errore, ci fornisce un nuovo interrogativo: la barista, la donna sempre ai margini della storia fino proprio a quella svolta finale, chi è realmente? Una semi divinità, come Mastandrea? O banalmente una donna che sta giocando a fare il lavoro di Mastandrea stesso? Quel foglio che brucia esattamente prima dei titoli di coda mi ha in effetti ricordato molto la trottola di Inception: l’uomo è stato finalmente liberato dal fardello del proprio compito? Fortunatamente non lo sapremo mai.
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